LegalNews: il fallimento dell’impresa

I recenti accadimenti verificatisi nel Tribunale di Milano, a seguito dei quali tre persone hanno tragicamente perso la vita, hanno acceso nuovamente i riflettori su un fenomeno in continua crescita, quello del fallimento di migliaia di imprese italiane.

  
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I lettori mi perdoneranno se il presente contributo assume una forma – e dei contenuti – un po’ sui generis, discostandosi dalla linea seguita sino ad oggi, ma i menzionati fatti di cronaca a mio parere impongono una riflessione.

Innanzitutto, esprimo il mio più sentito cordoglio per la morte di tre persone, un Collega, uno stimato Magistrato e un coimputato nel processo, che hanno perso la vita per un gesto scellerato, folle e completamente privo di scusanti, attenuanti o anche solo di spiegazione; al contempo, sono vicino a coloro che in quei fatti sono rimasti feriti. Come molti avvocati, peraltro, ho diversi amici e Colleghi che si trovavano nel Tribunale di Milano giovedì mattina, per svolgere onestamente il loro lavoro; solo per fortuna – o casualità – queste persone, insieme ai magistrati e a tutto il personale presente, nonché a coloro che lì si trovavano per caso, non hanno pagato con la vita per colpe non proprie.

Premetto che non conosco le vicende personali ed imprenditoriali del presunto assassino, ma so che alla base di questa terribile vicenda vi è la dichiarazione di fallimento di un’impresa, presupposto indefettibile perché possa essere integrato e conseguentemente perseguito il delitto di bancarotta fraudolenta. Di seguito svolgerò una breve riflessione, a fronte delle dichiarazioni che – stando ai giornali e ai notiziari – il presunto assassino avrebbe rilasciato ai Carabinieri una volta arrestato, secondo le quali egli intendeva vendicarsi di chi “l’avrebbe rovinato”.

Orbene, premetto che questo argomento è estremamente delicato, in quanto tocca – e spesso travolge – la vita di decine di migliaia di famiglie italiane, ossia quelle degli imprenditori destinatari di una pronuncia di fallimento, quelle dei loro dipendenti, collaboratori e creditori, nonché lo Stato, che nella quasi totalità dei casi è uno dei principali creditori del fallito, con ingenti importi per imposte e tasse non incassate. Sottolineo che in questa sede non intendo toccare il tema della pressione fiscale nel nostro Paese, perché è stato affrontato a vario titolo – e con grande lucidità – da studiosi e giuristi autorevolissimi, per cui io non potrei davvero aggiungere nulla a quanto già esposto, anche recentemente. Al contempo, non intendo affrontare il tema delle criticità che l’attuale Legge Fallimentare del 1942, basata – ancora oggi, almeno in parte – su una concezione afflittiva del fallimento - presenta.

Io mi limiterò a condividere la mia esperienza sul campo e a fare alcune conseguenti riflessioni.

Innanzitutto, quando un’impresa può fallire in Italia? E’ bene sottolineare che l’art. 1 della legge fallimentare (R.D. n. 267/1942) prevede dei limiti di fatturato e patrimoniali al di sotto dei quali l’impresa non può essere assoggettata ad una procedura concorsuale e, di conseguenza, non può fallire. Le imprese di dimensioni davvero esigue e la maggioranza delle ditte individuali, quindi, non possono nemmeno astrattamente fallire.

Ma qual è la causa che porta al fallimento di un’impresa? Presupposto per la dichiarazione di fallimento è lo stato di insolvenza dell’impresa, ossia una situazione – anche temporanea – di impotenza funzionale per la quale l’impresa non è in grado di onorare i propri debiti, nemmeno ricorrendo alle ordinarie forme di finanziamento. In sostanza, l’impresa fallisce quando si trova in una situazione che spesso viene definita di decozione, ossia quando non ha la capacità economica – né la prospettiva di conseguirla a breve termine – per adempiere alle proprie obbligazioni. Generalmente, inoltre, non si fallisce per un singolo debito, salvo che abbia una particolare rilevanza.

E’ possibile un fallimento “a ciel sereno”, ossia non preannunciato da una sintomatologia nella vita dell’impresa? Premettendo che non è possibile escludere in toto una tale eventualità, però si può affermare che sicuramente è molto rara. Ciò si verifica, ad esempio, quando un evento inaspettato porta al sorgere di una o più posizioni debitorie di grande rilevanza per l’impresa: si pensi ad un sinistro industriale inaspettato e non coperto dalle polizze assicurative, un accertamento fiscale di enorme peso economico, oppure ad altri eventi eccezionali ed inaspettati. Al contrario, quando un evento può essere preventivato, l’impresa sana – per quanto in suo potere – destina dei fondi a riserva per far fronte eventualmente a tali eventi.

Il fallimento di un’impresa, generalmente, è preannunciato dai seguenti eventi, che si verificano magari anche nell’ordine cronologico indicato: imposte e tasse parzialmente non corrisposte, per importi sempre maggiori, con rateizzazioni che poi via via non vengono più onorate; ritardi nei pagamenti dei fornitori, che poi cessano; ritardi nel ripianare l’esposizione verso gli istituti bancari, con pagamenti che progressivamente si fanno sempre più rari, fino ad arrestarsi; infine, ritardi nei pagamenti ai dipendenti e collaboratori, che successivamente non ricevono più la retribuzione e i compensi. Questi ultimi generalmente sono gli ultimi a patire le conseguenze della crisi dell’impresa, perché l’imprenditore cerca di preservare strenuamente le retribuzioni, anche per ragioni etiche.

Perché, però, la pronuncia di fallimento spesso interviene solo quando l’esposizione debitoria dell’impresa ha raggiunto proporzioni tali da essere troppo elevata rispetto alle dimensioni dell’azienda? Generalmente perché i soggetti che patiscono per primi le conseguenze della crisi dell’impresa sperano, per ovvie ragioni, che essa riesca a superare il momento di difficoltà e a riprendersi, cominciando a ripianare la propria esposizione debitoria.

Allora qual è il soggetto che può comprendere prima degli altri la gravità della situazione e decidere di fermare l’attività di un’impresa che ormai non ha più possibilità di riprendersi? Forse solo l’imprenditore ha tutti gli strumenti per capire quando la crisi è diventata irreversibile ed è stata imboccata la via del non ritorno. Con quest’ultima affermazione non voglio assolutamente colpevolizzare l’imprenditore, sia chiaro: è solo grazie a persone che con passione, orgoglio, competenza e dedizione svolgono l’attività d’impresa in prima persona, rischiando i propri denari e sacrificando spesso tutto il resto, che milioni di persone hanno un posto di lavoro. La piccola e media impresa è da sempre l’ossatura del tessuto produttivo italiano: gli imprenditori che ne fanno parte, dunque, sono una risorsa – e un valore – irrinunciabili per la nostra economia. La crisi, d’altra parte, gioca un ruolo fondamentale, travolgendo in modo spietato e senza possibilità di appello anche imprese che prima avevano buoni risultati.

Al contempo, però, ritengo che non si possano addossare ad altri tutte le colpe di un fallimento, salvo casi di complotti o persecuzioni molto rari. Un atteggiamento di questo tipo, infatti, è il prodotto della dilagante deresponsabilizzazione che spesso si riscontra nella nostra società; al contrario, generalmente il fallimento dell’impresa è cagionato da una molteplicità di fattori, tra i quali sicuramente un ruolo fondamentale è svolto dalla gestione operata dei vertici, dalla incapacità di rinnovarsi a fronte dei mutamenti del mercato, dalla mancanza di risorse adeguate e via dicendo. Incolpare chi concorre a vario titolo all’amministrazione della giustizia oppure altri soggetti è profondamente incoerente e concettualmente scorretto.

Che si possa arrivare ad uccidere per questo motivo, poi, è aberrante e sconvolgente.

Avv. Mattia Tacchini Leggi QUI il post completo